Processo
di Marina Belli
Kilune guardò il Giudice negli occhi con aria di sfida. Il Giudice ricambiava lo sguardo: indecifrabile. Kilune contrasse la mascella, i pugni serrati e i muscoli tesi. Era una battaglia anche quella. Aveva lottato per tutta la vita, quindi avrebbe combattuto anche quest’ultima volta: la differenza era minima. “Chi attacca per primo è un passo più vicino alla vittoria!” si disse Kilune, quindi parlò, cercando di avere la voce sicura e il tono ragionevole.
-Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto perché in quel momento era la cosa giusta. Non mi pento di nulla: ho mentito, tradito, ucciso, torturato. Ho fatto tutto quello che dovevo fare per sopravvivere e diventare più forte. Nessun pentimento.
-Neanche per quel sacrificio? -domandò calmo il Giudice accarezzandosi il mento.
-Erano bestie, nulla più! -le parole uscirono dalla sua bocca velenose. Ritrovò un po’ di calma e ragionevolezza e proseguì: -Loro morti, io immortale: si sono resi utili.
-Però sei qui… -mormorò il Giudice, gli occhi fissi nei suoi, sogghignando leggermente.
-Il sacerdote deve aver sbagliato qualcosa! -esclamò Kilune furente. No, la calma non era sua compagna quel giorno. “A quel paese la calma!” Di nuovo parole velenose uscirono dalle sue labbra: -Quel cane di un Urdimita!
-Forse sei tu che hai sbagliato, non solo lui: troppa fiducia… o forse non hai capito bene… -Fesserie! -urlò Kilune facendo un passo avanti mentre le labbra del Giudice si increspavano leggermente. -Immortale, ha detto. Uccidili, ha detto. La ragazzina è speciale, lei per ultima. E io l’ho fatto. Li ho aperti come le bestie che erano, ho sentito i loro cuori battere sulla punta del coltello. Non ho esitato. Ho fatto quello che era necessario.
-Forse non era abbastanza. Forse dovevi fare di più. -insinuò il Giudice.
Lo stupore si impadronì di Kilune a quell’affermazione. Fare di più? Cosa poteva fare di più!? Quella notte aveva ucciso… quante?... trentacinque persone, inutili contadini dalla vita opaca e inutile, bestie da pascolo che aveva sacrificato a Ptesichen Urdimian, seguendo le istruzioni di quello stupido sacerdote, per diventare un Senzamorte. Aveva ucciso la ragazzina. Il sacerdote aveva detto che era speciale, che in lei c’era una scintilla in più; c’era addirittura la possibilità che avesse il Fiume, la magia. Mentre il coltello si apriva la strada nella sua giovane carne, Kilune aveva avuto la sensazione di qualcosa di diverso; il volto della ragazzina si era impresso a fuoco nella sua mente. Averla uccisa, stranamente, le pesava più di ogni altra vita che aveva troncato: il più grande peccato della sua esistenza.
-Io… -mormorò Kilune per riempire il silenzio. No, non avrebbe potuto fare nulla di più.
-Sarai un acquisto interessante.
-Cosa…! -esclamò.
-Tranquilla, piccola anima. Mi prenderò io cura di te. -disse il Giudice a Kilune, le labbra dischiuse in un sorriso terrificante composto da troppe file di denti aguzzi e seghettati per essere reali. Tre metri di muscoli e forza si alzarono dal trono e la afferrarono, stritolandole il braccio. -Benvenuta all’Inferno, piccola schiava.
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