Un'ultima danza efferata
di Stefano Tevini
Voi che venite domani, donateci una goccia dello scorrere inarrestabile del vostro tempo.
Fermatevi un attimo soltanto, a ricordare queste facce tese, queste mani che corrono alle fiaschette
sperando di trovarvi un ultimo sorso di coraggio, questi sguardi carichi di troppa consapevolezza.
La consapevolezza di chi sa che sta andando a morire.

Tutto è cominciato molti secoli or sono, tanto che nessuno più conosce il motivo che ha spinto i nostri
due popoli a muoversi guerra, semplicemente ci siamo cresciuti con la spada in mano e un urlo ferino
nelle orecchie.

Mai nell’interminabile e sempre uguale succedersi delle generazioni questo conflitto ha visto una parte
dominare, al punto da ridursi col tempo a uno sporadico succedersi di scaramucce che solo di quando in
quando chiamavano un tributo di sangue, tanto che ci eravamo oramai abituati a piangere le morti in
battaglia come vere tragedie e non come la normale conseguenza del succedersi degli eventi.

Fu tale torpore a portare ai nostri nemici il trionfo, a noi la rovina.

Quando la morte allontana il proprio fiato dal collo degli uomini, questi si prendono la testa fra le mani e
pensano, talvolta per cacciarla ancor più lontano e talvolta per pagarle un tributo mostruosamente
maggiore rispetto a quello a cui essa ha rinunciato.

Fu in questo senso che scelsero i nostri nemici alcuni decenni or sono, instancabili con il martello come sul
tavolo da disegno, l’esatto opposto del nostro cieco trincerarsi nelle nostre antiche tradizioni come fa il
riccio con i propri aculei, incapaci di prendere atto del pericolo anche davanti alle prime, tremende bestie
con la pelle di legno e i denti d’acciaio vomitate senza sosta dalle loro fucine.



Le nostre lance contro le loro armi capaci di fulminarci a distanze che un arciere può solo sognare,
le nostre urla selvagge contro i tuoni scagliati con il solo cenno di una mano,
i nostri corpi sbattuti in aria dalle esplosioni come fagotti di stracci contro i loro carri che avanzano
inesorabili sbuffando volute di vapore.

Il nostro sangue raccolto in pozzanghere sul terreno contro i loro boccali sollevati in segno di vittoria.

Al ritmo del basso ringhio che esce dalle pance dei loro mostri invulnerabili alle nostre frecce, hanno ballato
sulle nostre tombe una folle notte dopo l’altra.
Oggi vengono per un’ultima danza efferata.

Le nostre donne, i vecchi e i bambini troppo piccoli per reggere un arma sono stati graziati dal sonno dolce
e definitivo delle Bacche di Serpe, noi uomini abbiamo deciso di indossare un’ultima volta le pitture dei
guerrieri.

Ancora pochi istanti e avrò finito di vergare queste parole per poi affidare al fiume la pergamena che le
sostiene, chiusa in un’anfora di terracotta.

L’orecchio intende il loro infernale sferragliare in lontananza, la mano corre più veloce della testa nel gesto
di assicurare il cinturone con il fodero al fianco.

Per voi che venite domani sono le nostre ultime parole.
Per noi stessi, un’ultima volta, suona il corno della carica.

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