La morte dell'ultimo
di Francesca Battaglia
L’incantesimo si propagò come una crepa sul ghiaccio. Fu sufficiente mormorare le prime parole, con tono incredulo, per ritrovarsi prigioniero di quel gorgo infernale.
Con fatica si trascinò verso un albero cercando un sostegno per il suo corpo martoriato.
Si sentiva spiato. Folate di vento trasportavano risatine di scherno.
Arrivato alla quercia si appoggiò con la schiena.
La ferita che aveva alla testa sanguinava abbondantemente e sembrava richiamare gli insetti. Il loro perpetuo ronzare si annidava fra le spire della sua mente suscitando echi di dolore che percorrevano veloci i suoi nervi.
Aprì gli occhi, di colpo, incrociando quelli di un piccolo guerriero che, a cavalcioni di una libellula ed armato di uno scudo d’elitre di scarabeo, volava all’altezza del suo viso.
La creatura, che indossava un teschio sbiancato di coniglio a mo’ di elmo, sorrise beffarda. Lo graffiò con la lancia, un aculeo di istrice, diede uno strattone alle redini e sparì .
Li sentì arrivare. La terra tremava ed loro scalpiccio cresceva come la marea sotto alla luna piena. Un’intera armata di esseri fatati che caracollavano verso di lui, usando piedi, zampe di rospo o zoccoli, riempì la sua visuale.
I tamburini dalla mascella prominente e zannuta, intenti a suonare il loro strumento con delle tibie, precedevano, insieme a suonatori di buccine, piccoli orchi dagli occhi arrossati, l’arrivo del Re.
I valletti, impettiti nella loro giubba di foglie secche e bava di ragno, reggevano con la loro coda pelosa, bacili di petali di fiore che spargevano a piene mani sul terreno davanti al loro sovrano.
La cavalcatura reale, una grossa lumaca nerastra, bardata con nappe d’oro e campanelli, si fermò davanti a lui.
Il Re, accoccolato in cima al guscio, vestito con un manto di ali di libellule ed una corona di gocce di rugiada, lo guardò con malcelato disprezzo.
Dietro di lui, la corte.
Le sue mogli, una schiera di fate volanti dai capelli d’argento e l’espressione svagata, ridacchiavano insolenti, alla vista di quel grosso corpo abbandonato.
Gli ambasciatori, schierati su un trespolo sorretto da due candide colombe, si agitavano frenetici, flagellando l’aria con le loro insegne di piume colorate. Gareggiavano per suggerire al loro Re la pena più spaventosa e dolorosa da infliggere al nemico ormai morente.
Su un carro trainato da una coppia di lucertole, arrivò, al cospetto di Sua Maestà, il libro. Il titolo, scritto con le rune d’argento, spiccava sulla copertina di pelle di basilisco.
L’uomo chiuse gli occhi a quella vista per lui blasfema.
Ricordava le infinite dispute con il resto dei saggi. Era l’unico, fra di loro, a sostenere che quello scritto insolente e protervo fosse menzognero.
- Stai morendo - disse il Re.
Lui deglutì. Aveva sperato che fosse tutto un sogno.
- Qual è la mia colpa? – chiese con un ultimo sospiro.
- Non avere fantasia – rispose Sua Maestà.
- Ma quel libro…era…- non riuscì a finire la frase.
La sua mente logica e razionale, non accettò quello che stava vedendo.
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