L'Emissario Alato
di Matteo Mancini ed Emanuele Mattana

Avevano superato la collina ed erano scomparsi nell’inferno verde, sotto lo sguardo spento dei figli. La selva, fredda e inospitale, era l’oceano in cui ora si trovavano a navigare.
Inoltrarsi in certi luoghi significava una cosa sola, ma la fame dei pargoli è un tarlo che alimenta il fuoco dell’audacia e annichilisce la ragione. Furono presto prigionieri di una landa in cui scricchiolii e fruscii fomentavano ogni paura, rinnovando l’orrore per la morte e i suoi emissari. Non potevano però abbandonare la spedizione, dovevano farsi coraggio.
Serpeggiarono fra piante ciclopiche e mostri celati nella notte. Respiri, berci e movimenti furtivi tormentavano le loro orecchie senza indurli a ripensamenti. Proseguirono l’uno dietro l’altra, acquattati al suolo.
D’un tratto, un bagliore occhieggiò in mezzo alle fronde. Si diressero verso la luce, sperando che fosse un segnale divino. La vegetazione divenne un tutt’uno con la ghiaia: l’inferno era ormai alle spalle…
Sospeso nella nebbia, un astro artificiale fluttuava nell’oscurità. I due avvertirono un’intensa sensazione di nudità, ma progredirono ancora; finché da un muro di vapore emerse una costruzione colossale, addormentata.
L’odore del cibo galleggiava nell’aria e allietava lo stomaco. Proveniva dalla struttura, ne erano certi. Così, filtrarono nelle fessure del portale e furono dentro.
Non si sbagliavano, numerosi sacchi traboccavano di viveri. Le preghiere, dunque, erano state ascoltate…
Afferrarono quanto possibile, poi, si guardarono negli occhi. Fu un breve cenno, bagnato dalla certezza di aver debellato una disperazione giunta sul punto di esplodere.
La femmina prese le ultime mercanzie e uscì all’aperto. Il maschio la seguì qualche attimo dopo. Avanzò per una decina di metri, quindi rallentò. Delle provviste erano sparse lungo il sentiero e ciò era molto strano. Mosse altri passi, poi - in un mare rosso - vide una testa…
Fu un’immagine rapida, perché un soffio lo fece trasalire. Precipitò a terra, paralizzato da un dolore lancinante. Il contatto con l’erba ebbe breve durata: qualcosa lo trascinò in cielo. Mentre urlava, con quanta voce avesse in corpo, un liquido caldo gli scorreva sulla pelle bruciandogli negli occhi.
Smarrì la percezione dei colori e con essi della sofferenza. Pensò ai piccoli: chi li avrebbe accuditi in futuro? Un flebile lamento gli fuoriuscì dalla bocca, seguito dall’eclissarsi delle palpebre. Era la fine…



Dei latrati squarciarono la quiete. La sentinella, che dormiva alla base del presidio, si era svegliata e aveva dato l’allarme.
Un volto si affacciò da una finestra e ruggì in direzione del buio. Due giganti, intanto, scesero nel piazzale. Erano pronti a difendere la loro proprietà e per questo iniziarono a perlustrare la zona. Infine, si convogliarono sotto un lampione.
C’era del granturco a terra e più avanti, in una striscia di sangue, una testa di topolino.
“Stupido di un cane” sbuffò un gigante, scuotendo il capo.
A poca distanza, un corpo bianco, simile al sudario di un fantasma, era appollaiato su un ramo di quercia. Delle viscere gli penzolavano dalle fauci, mentre - attorno agli artigli - dei cuccioli di barbagianni squittivano, assaporando il gusto della preda.

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