Inchiostro rosso
di Sibilla Pinocchio

Il vento cancellava le impronte sul selciato sabbioso nascondendo il cammino che la stava conducendo al suo destino. Il suo presente recente svaniva ad ogni folata, l’arcaico era oscuro e il futuro era in procinto d’avverarsi: lo scadere dei cinquecento anni era vicino. La clessidra del tempo doveva essere capovolta. La senza memoria procedeva seguendo una passeggera dell’aria. Una piuma si librava di fronte a lei muovendosi contro corrente. Questo aveva spinto la pezzente ad abbandonare il suo angolo dell’elemosina. I cenci erano scossi dall’aria che liberava dalla polvere i tessuti. L’abito rovinato rivelava un certo prestigio. Fra la trama del lino era prigioniero il suo passato. Le pieghe della sua pelle rivelavano una postura abitudinaria. Prima e dopo la perdita di memoria era stata a lungo seduta. Probabilmente, era sempre stata un'accattona e la sua mente rifiutava una vita così misera impedendole di ricordare. Aveva le mani sporche ma solo il pollice e l’indice erano macchiati di nero. Avrebbe pensato all’inchiostro, se non fosse stato impossibile: il lavoro dello scriba era riservato agli uomini. Seguendo uno strumento usato per scrivere, vagava cercando la sua storia. La penna planò sull’acqua e galleggiò in direzione opposta alla corrente. Il canneto di papiri, incorniciava il Nilo, ondeggiava come il liquido del fiume nel riverbero del sole. La piuma s’incagliò fra le radici di un albero. La palma da dattero divelta aveva catturato fra la rete delle sue fondamenta inutili la colorata guida aerea. Affondando nelle sponde fangose, la viaggiatrice, giunse alla conquista del mosaico piumato. Appena la sfiorò notò la presenza di un’assenza: improvvisamente l’accompagnamento sonoro era cessato. Gli uccelli rivelavano la loro esistenza con il canto. Osservando attentamente la distesa screpolata cercava un’upupa. I colori vivaci dell’uccello potevano scorgersi al riparo negli alberi di notte. Nessun nido risiedeva nella pianta morta quasi la fauna evitasse di trovare riparo nel destino infausto di un altro essere. Il tramonto, specchiandosi, spargeva il suo sangue come un annuncio di un presagio malevolo. Sedendosi all’ombra del defunto vegetale, le dita abili strinsero la penna aggrappandosi ad una sensazione familiare. Inconsciamente tracciò sulla sabbia un geroglifico: fenice. Come serpenti, le radici strisciarono sul suo collo avvinghiandolo in una presa mortale. I ricordi della maledizione riaffiorarono mentre la condanna si stava compiendo. Era una blasfema! Aveva osato nascondere la sua natura di donna finché le sue forme non avevano iniziato a tradirla e poi aveva rubato una piuma all’incarnazione del dio Ra. Avrebbe sostenuto si voler celebrare le gesta del faraone. Il dio del sole era stato violato solo perché credeva di ottenere la salvezza riuscendo a scrivere con la sua piuma. La fenice non poteva bruciare nel fuoco e rinascere dalle proprie ceneri se era incompleta. L’imbrogliona era riuscita ad annientare l'immortalità dell’uccello sacro. Il sole stava morendo con il buio notturno ma sarebbe rinato al mattino. La penna stava compiendo cinquecento anni e invece di conoscere l’inchiostro intinse nel sangue la sua punta per tracciare la parola “fine” all’esistenza della sacrilega e quella dell’araba fenice.

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