Crepuscolo
di Vittorio Caratozzolo

La giovane lamia intonò una flebile litania. La scrutai con stupore. Ne interrogai le labbra per cercare di afferrare qualcosa, ma il colore dei suoi occhi copriva la voce. I bianchi rintocchi di una campana bronzea spinsero verso di me ondate di suoni: al largo, nel tempo, doveva essere passata la mia nave, il bastimento zeppo di memorie predate in ogni angolo della Storia. La nostra gente se ne sarebbe nutrita per vari anni. Ma se al più presto non fossi riuscito a catturare i ricordi di qualcuno, per sarebbe finita.
Solo una fontanella asfittica osava interferire nel solitario monologo della campana. Una quercia, solleticata dal vento capriccioso, ridacchiava e talvolta mandava sospiri di sottile piacere, e quello, malizioso, continuava a strapparle i suoi gridolini. Si amavano così, in pubblico, sicuri di non esser notati, in quell'ora deserta. Mi celai dietro un angolo, in disperata attesa.
La lamia era intanto scomparsa, lasciando dietro di sé un sottile filo di sangue. Aveva lasciato sul margine della via un soldatino laccato, dall'aria sofferente.
Volli raccoglierlo, e per farlo mi sporsi dall'angolo, il vento mi vide e rimase paralizzato per la sorpresa, la quercia abbassò le sue fronde, pudica, mentre alcuni uccelletti, presero a fischiettare.
Sfiorai il vecchio soldatino con un dito e percepii un attaccaticcio di marmellate ataviche. Dal campanile le onde s'erano fermate, la nave era scomparsa all'orizzonte, portando con sé le sue preziose merci. Mi avevano sacrificato.
Si diffondeva intanto un odore tenue di gerani fioriti. La fontanella mi richiamò, sussurrandomi di assaggiare la sua acqua: era così fresca che, colandomi giù verso il gomito, mi suscitò un affilato brivido giù per la schiena. Mi sovvenne una notte di luna sudata, in un letto sabbioso, sotto pini stellati, in Dalmazia, due secoli prima.
La creatura mi riapparve davanti e io le porsi il soldatino. Lei sorrise sbattendo le ciglia, si distese e scivolò via. Avrei voluto seguirla, ma le gambe non reggevano più.
Con le ultime energie mi trascinai fino al muro. Udii i rintocchi dei tre quarti d'ora, possenti, sentii una carezza del vento, una foglia di castagno svolazzò adagiandosi a pochi centimetri da me. Avevo le labbra riarse, la gola secca e la borraccia vuota, attraversata dall’aculeo velenoso che urlava dentro di me. Portai un dito alla bocca, e sfiorandomi la lingua scabra percepii un dolciastro gusto di marmellata antica, mentre una campana lontana rimbombava nella mia lingua. All'orizzonte, dalle montagne ombrose, vidi finalmente avvicinarsi la nave. Tornavano a prendermi.
Mi sentii come rinato, l’aculeo tacque, il dolore era scomparso. La nave mi veniva incontro, dolcemente, rullando, spinta neghittosamente da un vento innamorato.
Chiusi gli occhi, assaporando l’imminente attimo della partenza. Tra le palpebre socchiuse, vidi in lontananza la lamia, arrotolata s'una panchina scrostata. Custodiva il soldatino tra le sue esili spire. Un attimo dopo, avvicinò il muso alla sua bocca, come per baciarlo.
Le sue labbra mostruose sfiorarono le mie: quel momento la nave si frappose tra me e la sua immagine, e attraccò al marciapiede.

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