Pulviscolo Atmosferico
di Vincenzo Comito
Da piccolo, Dario credeva che tra i fasci di luce vivessero fate e folletti. Ogni pomeriggio saliva sulla soffitta di casa, piena di polvere e cigolii; pancia a terra, osservava i tubi luminosi che bucavano le assi di legno. Ascoltava musiche e poesie dei popoli festanti che abitavano quei pianeti cilindrici, fino al tramonto; erano le dimensioni parallele che aveva letto nei fumetti, quelle che gli adulti non capiscono e chiamano “pulviscolo atmosferico”.
<<Pulviscolo è un pianeta a zigzag>> pensava, <<fa parte dell’universo Atmosferico.>>
Quando crebbe, non si recò più in soffitta. Il tempo era tutto per i coetanei, per i programmi della televisione. Dimenticò presto miti e leggende di Pulviscolo.
Un giorno, però, salì nella sua vecchia tana con la rabbia nel cuore. Un bicchiere in mano, beveva lunghe sorsate d’acqua per placare l’ira di una delusione amorosa. Ritrovò i fasci di luce del tramonto e le coorti di lucciole danzanti, impegnate in un’imperterrita festa.
“Nessuno deve festeggiare oggi” pensò. Si avvicinò a uno di quei bagliori, nel punto in cui toccava il suolo, capovolse il bicchiere e lo serrò a terra. Riuscì a imprigionare tre fili d’argento. Questi danzarono per qualche tempo, poi si affievolirono e, come esausti, caddero.
Con un ghigno soddisfatto Dario tornò alla porta, ma prima di uscire si voltò indietro. Fu l’attimo sottile che il sole impiega ad affondare nel mare: tra i fasci di luce, densi come aliti sanguigni, migliaia d’occhi immobili osservavano il ragazzo con dolore e biasimo.
Poi tutto fu buio.
Dario ne fu turbato solo per un minuto. Scrollò le spalle e uscì.
E il ragazzo divenne uomo, si sposò ed ebbe due bambine.
E implacabile, venne il momento dei ricordi; Dario portò la famiglia a visitare la casa della sua infanzia. L’atrio, le camere, le scale, ben presto furono in soffitta. Qui Dario narrò le vicende di Pulviscolo, le storie che aveva vissuto nei lunghi pomeriggi di bambino. Con la coda dell’occhio vide anche il bicchiere. Era ancora lì, come una teca di cristallo sepolta dalla polvere. Si lasciò alle spalle moglie e figlie e andò a vedere. Non si scorgeva nulla.
Sollevò il bicchiere e fu allora che avvertì il risucchio dietro alla schiena; subito dopo, un vuoto gelido. Serrò di nuovo il bicchiere e si girò di scatto. Non vide nessuno.
Nessuno.
Con un grumo d’aghi nel petto Dario tornò al bicchiere. Tre fili d’argento erano imprigionati; eseguivano un goffo balletto, sempre più lentamente. Prima che si potessero spegnere, rialzò il bicchiere e intravide tre piccole fate prive di volontà unirsi alle coorti festanti.
Nella luce sanguigna del tramonto, Dario rivide le migliaia d’occhi di molti anni addietro, questa volta colmi di crudele soddisfazione. Affondò le mani nel fascio luminoso, ma il sole sparì e Dario realizzò di essere rimasto solo.
Dario tornò in quella soffitta ogni pomeriggio; le mani bagnate nel sole, consumò la sua vita alla ricerca delle sue tre fate, disperse tra il popolo di Pulviscolo, il pianeta a zigzag dell’universo Atmosferico.

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