La bambola viva
di Elda Di Matteo

Siamo qui io e la mia Bambola Viva. Non abbiamo problemi di spazio. Di tempo, forse. Quello si. Ho bisogno di un piccolo spazio incapsulato in questo sfacelo di asfalto e plastica. L’ho trovato, l’ho scoperto come immaginavo, lurido, putrido, a forma di fogna aerea. Mai visto tanto sporco, sulle mattonelle che forse un tempo erano grigie. Sulle mattonelle che ora guardo rosse, rettangolari, nere come il fumo più sporco di questa città sconosciuta e invasata. Stretto e angusto, di quei posti fangosi che se ti inchini ti ricordi di avere una testa. Forse, come quella della mia Bambola Viva. Non c’è molto tempo. La tengo stretta, ma perdo il controllo. Povera. Mi sfugge ormai. Ha raggiunto il putridume infernale. Oh, non doveva accedere, potrei non perdonarmelo. Ho sbagliato a portarla con me, ma mi ha seguito lo stesso, non avrei mai potuto fermarla. Comunque, ora è qui, con la testa decapitata. Mi fissa mentre io la fisso in un lago di sangue vivo. Atterrite. La guardo con la luce fioca di una lampadina gialla che emette una luce appena visibile, sporca come il nero sulla mattonella grigia putrefatta e schifosamente viscida. Ma devo fare qualcosa, la testa comincia a decomporsi. Spinge. Le mattonelle sporche di sangue che scorre e si fonde con un numero infinitesimale di microbi di un numero infinitesimale di sconosciuti. Si attacca alla terra. La guancia si riempie, si deforma, si appiattisce e diventa unica materia con l’umido puzzolente. Ma ha paura, si vede, mi preme con la guancia l’anfibio nero. Per fortuna è allacciato alla carne viva, se no l’avrebbe portato nell’inferno della fogna. Comunque ora è non solo spaventata, l’ira si è impadronita della mia Bambola Viva. Mi guarda, mi fissa, con gli occhi sbarrati, due soli bianchi puntellati di radi raggi neri e simmetrici. Si assottiglia sempre di più. Panico. Devo salvarla, in qualche modo. Prendo la testa decapitata, nelle mie mani diventa un palloncino sgonfio. Si ritrae sempre di più, rimpicciolisce al contatto umano. Ora è almeno un terzo della sua sfericità originale. La reinserisco nel tronco muto. Neanche un punto di sutura, è liscia come uno stelo mai spezzato. Ma sproporzionata, l’angoscia mi assale. Non mi appartiene ormai. Si è divisa, un po’ tra le mie mani, un po’ sul muro piastrellato di nero. Il sangue riempie gli occhi. Stacco la microtesta dal corpo straziato. Le mani sporche di sangue. Non posso fare altro che seppellirla nel cilindro nascosto in questo spazio troppo stretto. Il tronco è mio, lo porto via con me. Che potrei fare. Allora è tempo di andare, la ferraglia sta per sguinzagliare i suoi tremori. E non c’è più tempo, ormai. Allora esco, in preda al panico silenzioso. Qualcuno in quel momento non aveva più resistito all’antico richiamo mai sopito. Non fa altro che entrare e uscire da questa capsula maleodorante. Ne esce urlando, straziando la gola, al suono di: assassina. No, non ho fatto niente, era solo la mia Bambola Viva.

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