L'Inseguimento
di Fabrizio Fangareggi

Quando il lampo squarciò il cielo gravido di nubi nere, la brughiera fu rischiarata di un innaturale alone vermiglio.
Il cavaliere si fermò, fendendo l’oscurità per vedere se il suo inseguitore era visibile. Nulla. La pioggia seguì il roboante tuono come lacrime stillate dopo un grido straziante di dolore.
Il cavaliere ripose lo sguardo davanti a sé e si avvide di una sagoma vagolante nella brughiera: un bambino di non più di nove anni, magro, sfinito. Scese dal cavallo, estraendo d’istinto da sotto il paludamento la sua spada. La lama baluginò al chiarore perlaceo della luna che occhieggiò per un breve momento dai nembi sovrastanti.
Il bambino intravide da sotto il mantello il simbolo della Dea Herina e prese coraggio: - sia lodata la Luminescenza – disse avvicinandosi. I Paladini della Luce aiutavano sempre il prossimo e la Dea Herina, il Fulgore Celeste, dissipava le tenebre con la sua luce immacolata. Ora finalmente era al sicuro.
Il cavaliere protese una mano verso il fanciullo: - ti sei perso? – chiese con voce roca, priva di alcuna emozione – come ti chiami?
- Jack – rispose il bambino, tremando per il freddo. Non si era perso… era fuggito.
Un altro lampo esplose nel cielo e Jack osservò la mano del cavaliere, adunca e ossuta come quella di un vecchio. E intravide il volto: pallido, malato, con due occhi gialli e stretti, infidi e corrosivi come il sorriso sardonico che increspò le labbra tumide in un ghigno osceno.
Trasalì mentre la lama calò impietosa su di lui, tagliandogli un braccio come fosse burro. E il sangue schizzò a terra mischiandosi con l’acqua piovana.
Un successivo grido, e un successivo taglio: la testa mozzata di Jack rotolò ai piedi del cavaliere.

Kelval aprì gli occhi. Era spuntata l’alba nel firmamento verdeggiante, maculato di nubi e di stelle. Osservò le orme nel fango e poi vide il corpicino mutilato in una polla di sangue: Lavkel era stato qui… il Rinnegato che aveva vituperato il nome della Dea, colui che inseguiva da diversi mesi e che non riusciva a raggiungere, aveva ucciso ancora. E Kelval, ormai, seguiva una scia di sangue, tracce macabre dove le orme avevano volti o nomi che riempivano i suoi incubi notturni.
Si convinse a non seppellire il bambino, perché i minuti preziosi risparmiati avrebbero potuto salvare un’altra vita, e si ritrovò a piangere lacrime di rabbia sotto la pioggia che dilavava il simbolo della Dea Herina intarsiato sul pettorale.
Spronò il suo destriero con foga, riprese l’inseguimento.

Il cacciatore di taglie osservò dalla collina il cavaliere allontanarsi. Sputò per terra.
“Si accorgerà mai della sua condizione?” si chiese in un barlume d’umanità.
I Sacerdoti Celesti gli avevano detto che Kelval era vittima di una dicotomia mentale irreversibile: a tratti credeva di essere Kelval, il Paladino della Luce, il Temerario, per poi tornare ad essere Lavkel, il Rinnegato… ma era sempre lui a uccidere e a soffrire. E inseguiva se stesso in una caccia sempiterna.
Il Cacciatore di taglie montò in arcione e riprese l’inseguimento.

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