Metzada
di Giancarlo Manfredi

La rivolta era scoppiata in tutta la provincia, rapida come incendio in un campo di grano quando soffia lo scirocco.
E sanguinosa era stata la sua repressione, per volere degli Dei, dell’Imperatore e con un piccolo contributo della Decima Fretensis.
Ricordo i compagni della vexillatio alla quale ero assegnato.
Ricordo la vita nell’accampamento di Cesarea, le marce nel deserto, il fiume Giordano scintillante nei pressi di Scitopoli.
Ricordo i monaci che fuggivano dai monasteri, le lunghe barbe in fiamme e i rotoli di papiri sottobraccio.
Ricordo il freddo degli accampamenti invernali, le infinite notti di guardia, le partite ai dadi e le prostitute di Gerico.
Il cuore della rivolta era sepolto nel tempio della città antica, un luogo ricco di tesori, così diceva il governatore Lucilio Basso per sollevare il morale durante l’assedio.
Ma quando le mura di Gerusalemme crollarono sotto i colpi delle baliste e il tempio iniziò a bruciare, una maledizione si propagò da quei tesori dissacrati.
Se ne accorse anche il governatore, colpito dalla stessa malattia che decimava schiavi e legionari.
La causa, dissero gli aruspici, era in una reliquia trafugata dal tempio prima della distruzione.
Furono il fuoco e le tenaglie a sciogliere le lingue dei più testardi: gli zelati, l’avevano portata via e nascosta in una fortezza.
Conquistammo Erodio e poi Machero senza trovare nulla.
Un nuovo governatore, Lucio Flavio Silva, ci condusse allora alla rocca di Masada.
Antica, Metzada come la chiamavano gli ebrei, dominava sul mar Morto con mura alte dieci cubiti e quaranta torri a difenderne il perimetro.
Edificata su tre livelli e dotata di terme, magazzini e cisterne, sembrava imprendibile.
Ma l’arte della guerra non è governata dalla fretta: con il lavoro degli schiavi costruimmo un accampamento, un vallo e una rampa verso quelle altissime mura.
Di giorno pattugliavamo il deserto per evitare sortite, cercando di tenerci lontani dai proiettili di fuoco scagliati dall’alto.
Ogni sera pregavamo la stella di Venere, facendo sacrifici sotto l’insegna del Toro, simbolo della legione e animale sacro alla dea.
Tutto sembrava però inutile: gli ebrei avevano dalla loro parte un dio vendicativo, in grado di scatenare i suoi fulmini dall’alto della fortezza!
L’onore della legione, l’onore di Roma stessa era in gioco: fallita l’ars bellica Lucio Flavio decise di ricorrere all’ars magica convocando negromanti e sacerdoti, blandendoli con la retorica, la corruzione o la minaccia.
Fui scelto infine per scortare, verso un passaggio segreto, uno di quegli stregoni.
Il mattino seguente l’attacco della legione non trovò resistenza: tutti, uomini, donne, bambini, furono trovati morti, trafitti da una sola spada.
Lo stregone aveva fatto un buon lavoro; lo uccisi al suo ritorno, come mi era stato ordinato, ma della reliquia fonte di potere divino, nessuna traccia.
Nella sua bisaccia solo frammenti di tavole litiche coperte di incisioni, roba di poco valore che presi tuttavia con me.
L’oneraria per Panormus partì pochi mesi dopo: gli dei protessero il viaggio di ritorno e il resto della mia perigliosa vita.
Ora tutto questo vi racconto, proprio come lo ricordo.

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