Quanto sole
di Patrizia Rinaldi

Quanto sole. Esco lo stesso. Lo schermo nell’ingresso lo sconsiglia. Temperature previste: 35/40°. Tanto esco lo stesso.
Non che non mi piaccia stare nascosta, ma ho una nausea sottile che mi spinge fuori. Mi avvio verso la piscina a piedi. Devo attraversare un pezzo di deserto, gli edifici del novecento se ne stanno incartati in cupole d’aria. Ci abitano i ricchi, usano accessi privati e sotterranei. I loro palazzi non hanno ingressi evidenti.
Sotto il vestito, la guaina termica mi stringe e disegna curve ottimiste. Mi sono portata dietro il rettangolo piccolo su cui scrivo. A quarant’anni sono poco più di una bambina. Per lo meno in questo posto, ora: nel deserto di pietre a sud-ovest.
Un olivo respira in una serra di vapore. Lo guardo senza commozione, il rettangolo si illumina e fa bip. Spero che non sia lavoro. Non lo è, è la scuola di mia figlia: Sphrena ha infilato le mani in un secchio di vernice verde e si è dipinta abiti, faccia e gambe. Non vuole pulirsi, non vuole mangiare. Chiede di me.
Penso a lei e il cursore parte guidato dal desiderio di capelli biondi macchiati di verde.

"Sphrena, cosa succede?"
"La tipa delle pulizie ha ucciso Romilde, la mosca. L’avevo nascosta bene, ma lei l’ha trovata. Portami a casa e scrivimi una storia."
"Puoi tornare dopo l’una."
"Comunque non mi farò pulire e non mangio."

Sta arrivando l’ansia, faccio gli esercizi suggeriti. Arriva lo stesso. Ieri ho ricevuto un premio. Scrivo bene con il pensiero. Mi sposto veloce tra i sentimenti. Ho un buon archivio e il lavoro mi viene liscio. Basta fare un piccolo taglio e la memoria sanguina. I neuroni del processo mi ubbidiscono e vado.
C’è chi è più bravo, ma la mia velocità è invidiata. Non mi serve ispirazione, non mi serve profumo. I signori delle macchine si congratulano. In cambio ho questa piccola disperazione, cosa vuoi che sia. Mi hanno dato 3.500 foglie, ci campo due mesi e neanche tanto larga. Ho scritto in pubblico, come sempre mi è venuto l’acido nelle gambe.
Marina dice che la scrittura è l’antidoto, non il veleno, ma non sono tanto convinta. Lei è una donna d’azione e se ne frega delle incertezze.
Per guarire la disperazione penso al senso di istanti nascosti. Posso farlo senza che lo schermo si illumini, perché ho imparato a bloccare il cursore. Faccio un respiro e corro: le mani di Joe M., la corsa di Lore, la voce di Sphrena, i capelli di Gabriella, il bianco di Antonio, il rosso impazzito di ogni risata.
Il cursore si incanta, tac tac, senza trovare pace.

Raggiungo la piscina e mi spoglio. Mi immergo e piango. Lecco lacrime, il disinfettante che sa di mare e piango.
Quando il pianto finisce ritornano discorsi leggeri. Sotto la doccia sono un’altra. Ordinata, paziente, quasi leggera.

Al ritorno, da brava, uso il sotterraneo. Lo schermo mi chiama. Rispondo: d’accordo domani finirò il lavoro. Chiudo l’archivio che sanguina e me ne vado a casa.

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